Rapporto tra la normativa sulle pratiche commerciali scorrette e la disciplina di tutela della privacy

Fonte: Juranews

Massima: “Costituisce pratica commerciale scorretta la condotta del motore di ricerca che non fornisca in modo chiaro agli utenti informazioni rilevanti circa la possibilità che i loro dati personali possano essere utilizzati per mostrare loro annunci personalizzati; con la conseguenza la patrimonializzazione dei dati personali, frutto dell’intervento della società attraverso la messa a disposizione dei dati e la profilazione degli utenti a fini commerciali, avviene senza la dovuta consapevolezza da parte dei consumatori, alterando la loro capacità di assumere una decisione di natura commerciale (e cioè di accettare che il professionista raccolga e utilizzi a fini commerciali i loro dati personali)”. (massima non ufficiale)

Con la sentenza che si annota, il Consiglio di Stato si pronuncia in ordine al rapporto tra la normativa sulle pratiche commerciali scorrette e la disciplina di tutela della privacy.

In generale, secondo la giurisprudenza europea e nazionale, al criterio della specialità, che vedrebbe prevalere la competenza dell’Autorità settoriale, deve preferirsi il criterio della incompatibilità, che vede possibile l’intervento dell’Autorità di settore solo qualora la condotta contestata abbia «ambiti specifici», nel senso che non rientri nel potere di intervento dell’Antitrust.

In altri termini, l’incompatibilità, con conseguente competenza dell’Autorità di settore, sussiste quando la condotta posta in essere costituisce oggetto di possibile intervento solo da parte di quest’ultima, laddove, se la condotta contestata è tale da rientrare in astratto nel potere di intervento di ambedue le Autorità, la competenza è dell’Antitrust.

Il Consiglio di Stato, nella pronuncia in commento, chiarisce che tale principio di diritto è applicabile anche quando l’oggetto dell’accertamento compiuto dall’Antitrust non attiene alla correttezza del trattamento dei dati personali (che costituisce il campo di intervento del Garante della privacy), ma alle modalità di informazione sullo sfruttamento di tali dati a fini commerciali nell’ambito di un rapporto di consumo.

Tale sfruttamento inerisce ad un rapporto di consumo in presenza del fenomeno c.d. della patrimonializzazione del dato personale, tipico delle nuove economie dei mercati digitali.

In sostanza, i consumatori accedono ai servizi offerti da Google; Google cede i dati personali oggetto di profilazione dietro corrispettivo e le imprese pubblicizzano a pagamento i loro prodotti.

Lo scopo principale della profilazione è proprio quello di raccogliere dati personali e trasformarli in informazioni da utilizzare per la costruzione di pubblicità e sponsorizzazioni calibrate sugli interessi dell’utente, con lo scopo di far acquistare un determinato prodotto o servizio.

Tanto premesso, secondo il Consiglio di Stato, costituisce pratica commerciale scorretta la condotta contestata a Google del non aver fornito in modo chiaro agli utenti informazioni rilevanti circa la possibilità che i loro dati personali potessero essere utilizzati per mostrare loro annunci personalizzati; con la conseguenza la patrimonializzazione dei dati personali, frutto dell’intervento della società attraverso la messa a disposizione dei dati e la profilazione degli utenti a fini commerciali, è avvenuta senza la dovuta consapevolezza da parte dei consumatori, alterando la loro capacità di assumere una decisione di natura commerciale (e cioè di accettare che il professionista raccolga e utilizzi a fini commerciali i loro dati personali).

La circostanza che l’utente medio che naviga online sia consapevole del possibile utilizzo dei dati personali per finalità pubblicitarie non esime affatto il professionista dall’onere di adottare un sistema informativo sulla profilazione dei dati personali chiaro, esaustivo e di immediata percezione, tanto più che non è irragionevole ritenere che la maggioranza degli utenti accede ai servizi in modo rapido, senza soffermarsi eccessivamente sulle indicazioni preliminari; per cui è necessario che le informazioni siano immediatamente percepibili, senza la necessità di interpretare le stesse o di consultare ulteriori link.

Il metodo opt-out anziché opt-in, in assenza di ulteriori caratteristiche, può concorrere alla formazione di una pratica commerciale ingannevole, ma non può assumere il rilievo di indebito condizionamento richiesto dall’art. 24 del d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (codice del consumo), in quanto il consumatore, sia pure attraverso un atto di deselezione dell’opzione predeterminata e di apposizione del flag su un diverso spazio, può, anche se in modo più difficoltoso, evitare di compiere la scelta proposta.

La pratica commerciale per essere qualificata aggressiva necessita di un quid pluris che si traduca in una condotta capace di coartare la libertà di scelta dell’utente, il che, nel caso di specie, non sembra configurabile.

La carenza informativa sugli effetti della preselezione, in definitiva, rileva sotto il profilo della ingannevolezza e, quindi, sulla consapevolezza, ma non in termini di aggressività, vale a dire sulla libertà di scelta, della pratica commerciale.